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LA QUESTIONE “INTERNI”
DI PIER FEDERICO CALIARI                                                                                                                                                                                   SCARICA I TEMI

 

Gli interni sono l’architettura stessa, osservata dal suo centro. Un ambiente in cui l’osservatore è, in senso relativistico, in movimento in (e attraverso) uno spazio definito da un recinto. Tutte le architetture pongono quindi la questione della posizione dell’osservatore, il quale si pone liberamente dentro e fuori il recinto. Tutte le architetture hanno un interno (1) . Tutte le architetture, per usare una metafora in opposition a quanto sostenuto da Franco Purini sull’architettura d’interni, sono piene di vuoto.
E’ quindi “solo” un punto di vista a definire ontologicamente l’architettura degli interni?
Naturalmente no, ma è a partire da quel punto di vista che si organizza la conoscenza dell’interno come “categoria” dell’architettura.
La conoscenza dell’architettura, vista dall’interno del suo recinto, si sviluppa a partire da alcuni temi che le sono propri e che fanno parte del suo bagaglio: la questione delle origini, la sua storia, i suoi esempi, il rapporto specifico con la comunicazione, lo specifico disciplinare e il rapporto con i saperi contigui, e il mutamento di scala innanzitutto. E da altri che costituiscono un “valore aggiunto” offerto della progettualità, e che si pongono quindi come gli “oggetti” stessi con cui questa angolazione dell’architettura si confronta: il dimensionamento degli spazi, il rapporto interno esterno, i materiali, il rapporto tra allestimento interno e recinto, i paesaggi oggettuali, il trattamento delle superfici, la questione della luce e del colore.
Gli uni e gli altri temi dovrebbero essere poi organizzati in una dissertazione capace di costituire un’unità letteraria, una teoria_storia dell’architettura in grado di suturare un’aporia che la disciplina registra: l’assenza di un’opera summa capace di descrivere i contorni e l’essenza stessa di un sapere. Mi riferisco cioè, alla messa a punto di ciò che un tempo neanche tanto lontano veniva inteso come “teoria generale” e quindi come un’opera di ricerca che potrebbe intitolarsi appunto “trattato generale sull’architettura d’interni”.

Gli interni come atto fondativo e la questione della forma
Un discorso sull’origine dell’interno architettonico non può essere considerato al di fuori della questione della forma, poiché solo nella forma e nella materialità della stessa sono presenti gli aspetti qualitativi dello spazio architettonico.
La forma interna appartiene al dato originario di una architettura. Ne costituisce l’atto fondativo. Nell’atto di dare forma ad una architettura, e quindi nel momento stesso del suo concepimento, gli interni sono parte integrale ed integrata della forma stessa. Non vengono né prima, né dopo. Sono un dato immanente. L’architettura nasce come forma dominata da un’abitabilità e da una corporeità esperibile da fuori e da dentro. In questo senso le architetture, per definizione, nascono con una parte interna in relazione fisica con l’esterno. Il margine, il bordo, la membrana, la pelle, insomma, il limite tra il dentro e il fuori è definito da un thèmenos, che è parte integrante della forma stessa (2) .
Non è possibile pensare all’architettura in modo differente, e quindi appare scontato che l’interno si costituisca e si mostri nell’atto stesso di nascita della forma architettonica.
Da qui, da questo punto di vista è possibile pensare e vedere l’architettura.
L’architettura è interno ed esterno in unità, ma allo stesso tempo posso pensare all’architettura come il risultato di una divisione, di selezione delle sue parti, in cui lo spazio si definisce per circoscrizione e dimensionamento. Penso all’architettura come delimitazione di uno spazio interno rispetto all’ambiente che non ne è compreso (3) .
Louis Khan sosteneva che il miracolo dell’architettura, e quindi la sua genesi, fosse tutto descritto nell’atto in cui il muro si contrae fino a diventare colonna. Non so se Khan intendesse, con questo, il miracolo dell’architettura “parlante”, cioè la nascita dello stile, ma personalmente penso che se mai l’architettura dovesse essere il prodotto del “miracolo”, questo abbia preso corpo assieme al concetto di “porta” (varco) e a quello di “finestra” (affaccio), cioè all’idea di passaggio e di comunicazione allo stesso tempo tra due realtà, quella della natura e quella dell’architettura, nella quale si entra, si abita e si guarda verso l’esterno, somministrando i valori della luce. La contrazione khaniana del muro che diventa colonna, altro non significa quindi se non il miracolo della “trasparenza” della forma, cioè la sua permeabilità. In sostanza l’architettura è, solo se esistono un interno ed un esterno in relazione e comunicazione fisica tra loro.
Ma, sempre contestualmente alla questione dell’interno architettonico e della genesi della sua forma, non può non essere presa in considerazione la fenomenologia dello “Spazio Primario”enunciata da Carlo De Carli.
La grande intuizione di De Carli è stata quella di aver posizionato l’atto fondativo o primario dello spazio nel logos fondante della forma, descrivendo il primo momento appercettivo (in senso Husserliano), come un istante, un Delta T proprio della forma, nella quale sono già presenti tutti gli elementi dell’architettura che sarà, senza essere ancora progetto. In questo senso la fenomenologia dello Spazio Primario, riporta la nascita dell’architettura e quindi l’atto stesso fondativo, nell’alveo dello spirito e della coscienza individuale, opponendosi al concetto di forma come tipo e quindi come idea collettiva di architettura, mutuata dal pensiero aldorossiano direttamente dall’idealismo Hegeliano.

Teoria estetica vs teoria sociale dell’Architettura. L’aporia letteraria.
Ma al contempo, se l’opera di De Carli riesce a portare gli interni al centro della riflessione sull’architettura, dall’altra ottiene un effetto opposto, quello cioè di estrometterli dai grandi movimenti di idee e di rifondazione dell’architettura che da mezzo secolo agitano le pagine dei testi e dei periodici di architettura. Se confrontiamo la spinta ideologica ed il successo letterario dell’Architettura. Spazio Primario con quello de L’Architettura della Città di Aldo Rossi, si ha un’idea della distanza tra l’interesse espresso per la visione sociale dell’architettura e quello per la visione intimista degli interni. Né la riflessione intimista è mai riuscita a penetrare il suo specifico campo di applicazione in tutta l’enorme tradizione di studi sull’alloggio popolare e sull’abitazione razionale.
Già, perché gli interni non possono limitarsi a questioni di “utilitas”, ma devono possedere in sé tutti gli elementi originari, e quindi anche la “firmitas” e la “venustas”, elementi che nella tradizione sociale del “bisogno casa”, dall’alloggio operaio ottocentesco fino all’existenz minimum, non sembrano mai essere stati irrinunciabili.
Sarà forse quindi per questo carattere intimo e individualista, un po’ autonomo rispetto all’ideale sociale di architettura, che è possibile registrare un’effettiva assenza dell’interno dalla grande trattazione classica teorica dell’architettura.
Gli interni, nonostante la loro centralità ontologica, non sono mai trattati in modo rilevante (cioè come fatto decisivo e a sé stante) nelle grandi narrazioni dell’architettura. Anzi, spesso “confinati” nella professione e nei periodici che ne sono espressione editoriale -una specie di concordato esilio dorato- è proprio questo aspetto marginale con cui prendono parte alla narrazione che più colpisce, se si pensa che ogni architettura, quindi tutte le architetture hanno dentro di sé il proprio interno.
Allo stesso tempo, il dubbio che gli interni (in opposizione agli esterni) siano un problema sentito solo a livello di disciplina universitaria (e quindi di specifica ricerca scientifica), affiora nel momento in cui, a ben guardare, in seicento anni di elaborazione teorica nessun autore si è concentrato nella definizione e nella realizzazione di un solo tomo dedicato specificatamente agli stessi. Ciò inoltre fa affiorare un secondo dubbio, figlio del primo, per cui in architettura, separare le competenze degli interni dagli esterni sia una questione teoricamente inconsistente.
L’assenza dalla teoria non significa tuttavia assenza dalla storia dell’architettura, cioè dalle architetture stesse che, a partire da dall’età del bronzo, dimostrano di avere ben chiara l’idea di architettura d’interni.
Questa discrasia, tra architettura raccontata e architettura realizzata è un altro importante aspetto a cui è difficile dare una risposta convincente, se non quella che la trattazione letteraria abbia avuto sempre, e quindi tradizionalmente, un altro target, cioè quello universitario e dei circoli colti, piuttosto che quello degli studi di architettura, in cui l’architettura d’interni, in modo più o meno sentito, ha sempre abitato.
Sempre su questa linea, pensando alla redazione di un’opera di ampio respiro storico_teorico, è forse più sensato impostare una trattazione per casi studio che non per teorie generaliste, assumendo il modello del “manuale”, piuttosto che quello del “trattato”.
Ora, analizzando il percorso storico della narrazione teorica dell’architettura, è interessante vedere come l’interno, anche se in modo marginale, ha preso parte e ha contribuito a perfezionare le descrizioni sulla corretta maniere de bienbastir.
Nel primo libro del De Re Aedificatoria (1442), Leon Battista Alberti (1404_1472) esordisce con la descrizione dei lineamenta (regio, area, partitio, paries, tectum, apertio), cioè gli elementi che interagiscono con l’edificio e che ne originano la forma: il luogo, il suolo, la pianta, le murature, il tetto e le aperture. Sono gli elementi base dell’architettura e quindi anche del suo interno. C’è tutto per la separazione con l’esterno (murature e tetto). C’è quello che serve per la relazione con l’esterno (le aperture). C’è tutto quello che serve per disegnare l’interno (pianta e murature) e c’è tutto per stabilire il rapporto formale tra l’architettura (e le sue parti) e il paesaggio esterno. Nel primo libro quindi, Alberti parla, in chiave di genesi, della forma dell’edificio. Implicitamente l’edificio è più “interno” che “esterno”, nel senso che la descrizione è limitata alle condizioni base e non giunge ancora (cosa che farà nel blocco dei libri dal VI al IX) all’esplicitazione del concetto di “decor” cioè dell’aspetto comunicazionale dell’edificio. Le proprietà dell’edificio sono quindi “interne” e profondamente materiche. Non c’è traccia di rapporto con altre architetture o di un rapporto di specifico con il paesaggio se non per le sue caratteristiche fisiche. L’architettura è in sé, e in sé stessa contiene, senza soluzione di continuità interno ed esterno. Senza esplicitazione del diverso status.
Con riferimento all’idea di “decor” Alberti elaborerà un concetto molto importante se riferito a quelli contemporanei di “allestimento” e di “arredamento”. Definisce il “decor” attraverso metafore presenti già in Vitruvio, come l’abito sopra il corpo nudo e come le carni che rivestono morbidamente lo scheletro osseo duro e immutabile.
Pensando alla prima metafora il nesso con il concetto di “fodera” (Renato De Fusco, Storia dell’Arredamento, UTET, 1993) e con quello di “allestimento” (Pier Federico Caliari, La forma dell’Effimero, 2000) appare molto evidente (4) .
La seconda metafora, ci riporta immediatamente all’idea dell’architettura “parlante”, cioè quella che attraverso gli ordini architettonici (dorico, ionico, ecc.) e il tipo di elaborazione simbolico-decorativa, stabilisce un rapporto di comunicazione con gli osservatori. La struttura portante (l’ossatura dura) dell’edificio più essere reiterata all’infinito, ma è la tensione estetica del linguaggio utilizzato (gli ordini che rappresentano l’aspetto esteriore del corpo) che ne definiscono la qualità e il ruolo civile specifico.
Altro aspetto importante presente nella narrazione albertiana è la presenza dell’osservatore, figura non necessariamente coincidente con quella del progettista. Le due figure hanno in comune la concinnitas, cioè la capacità del primo di comporre in modo armonioso e conveniente e del secondo, di comprendere, di saper leggere l’architettura come se questa fosse un testo autonomo. La concinnitas è una condizione di equilibrio che regola il rapporto estetico tra un’architettura ed il suo osservatore, mettendo in evidenza la primaria relazione percettiva tra proprietà dell’oggetto e proprietà dell’osservatore.
                Senza poter competere con il profilo culturale dell’Alberti e dello stesso Fra Giocondo, e senza minimamente volerlo fare, non avendo una conoscenza dell’architettura classica coltivata “in situ”, Cesare Cesariano (1476_1543) pubblica nel 1521 la traduzione commentata del De Architectura offrendo al pubblico qualcosa che con l’Alberti non aveva avuto: le tavole grafiche di ricostruzione delle architetture descritte da Vitruvio.
Malgrado una interpretazione spesso distante dalla verità della forma e dello spirito dell’architettura classica, Cesariano apre alla raffigurazione dell’interno, con una serie di bellissimi disegni riguardanti l’architettura del teatro antico (theatrorum intus) e la ricostruzione della basilica di Fano dello stesso Vitruvio, in cui compaiono il fronte e la sezione della stessa.
L’introduzione del disegno in sezione comporta la messa a punto del dispositivo teoretico (in senso etimologico) con cui è possibile guardare all’interno dell’architettura.
Con la pubblicazione nel 1517 dei primi saggi sull’arte del costruire di Sebastiano Serlio (1475_1553), l’interno si manifesta in modo effettivo, non solo attraverso la proposta grafica della sezione del Pantheon (a cui sarà dedicato specifico capitolo monografico) e di altri importanti edifici romani, ma particolarmente, attraverso il  primo saggio teorico di architettura degli interni, riferito all’allestimento del teatro di corte su base prospettica. In effetti è proprio l’architettura teatrale a dare impulso ad una nuovo grande orizzonte per gli interni di epoca rinascimentale e barocca. Il teatro, per la sua specifica funzione legata alla rappresentazione scenica e musicale, per la sua “scientificità” costituisce il più alto livello di formalizzazione teorica relativamente agli interni, con una straordinaria corrispondenza realizzativa. Raramente teoria e pratica hanno prodotto risultati così convincenti e straordinari nel rapporto di continuità tra pensiero e azione. Il Teatro Olimpico di Vicenza del Palladio, anticipato dai disegni presenti nei Dieci Libri dell’Architettura di Vitruvio curato da Daniele Barbaro, e dai disegni presenti nei Quattro libri dell’architettura dello stesso Palladio, è uno degli esempi concreti più significativi e importanti di tutta l’architettura degli interni.

 


1 Interessante è la questione posta da Franco Purini, secondo il quale l’architettura è priva d’interno. E’ un “tutto esterno”.  A sostegno di questa idea, porta la somiglianza con il corpo umano, che è privo di cavità e non ha aria al suo interno. Tutti gli organi sono sintatticamente contigui e se lo si seziona non si trovano se non corpi pieni.

2 Per definizione, s’intende che un’architettura è appunto definita da una costruzione, che stabilisce una separazione tra due identità formali delle quali, almeno una è uno spazio delimitato e chiuso, finalizzato a destinare attività, in altre parole ad abitarvi.
Naturalmente, si apre qui tutta una riflessione relativa alla natura del sepolcro e del monumento. Come ricorda Adolf Loos la dignità di “architettura”, spetta appunto solo a questi. E, se si accetta questa visione, tutto il resto è edilizia ordinaria. Non c’è quindi scampo per il tessuto connettivo delle città, fatto appunto di “case”, né per altre realtà infrastrutturali, come le fabbriche, i porti, i grandi magazzini, ecc. In realtà Loos, intende come monumenti non tanto la statua equestre di Guglielmo II, quanto le grandi architetture pubbliche che veicolano i valori collettivi, estendendo lo statuts di monumento a tutta l’espressione pubblica e civile dell’architettura che ne è rappresentazione.

3 Secondo questo ragionamento, non sarebbe più tanto facile pensare ai più importanti ed imponenti monumenti del mondo antico, le Piramidi egizie, come architetture. Esse infatti non costituiscono e non definiscono uno spazio interno (almeno fino a quanto se ne sa oggi), né i corridori interni e le sale sepolcrali, possono minimamente competere come spazio primario, con il volume e la matericità da esse espresse. Esse sono per lo più la rappresentazione immane della “montagna” e gli spazi interni sono più che altro riferibili all’idea di “grotta”, ne più, ne meno delle altre tombe rupestri scavate nei banchi rocciosi della Valle dei Re più di mille anni dopo.

4 Ne “La forma dell’effimero”, il concetto di allestimento viene esplicitato a partire dall’antico etimo francese riferito al verbo “lester”, il cui significato letterale è portare su di sé pesanti drappi. Da questa traccia si forma l’idea dell’abito da festa, piuttosto che dell’esibizione di grandi drappeggi di velluto nelle occasioni eccezionali di una comunità (matrimoni, feste patronali, funerali, ecc.) e quindi del rivestimento paratattico dell’esistente con apparati esterni che modificano la percezione del presente, rispetto al quotidiano.

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